IL LINGUAGGIO DELLE MANI

Ho conosciuto Corrado Campisi nella primavera del 1977, a Portopalo, un piccolo paese, punta estrema del sud d’Italia, con poco meno di 4500 anime, prevalentemente pescatori e agricoltori. In questo luogo solare, dove Campisi è nato 41 anni fa, il mare e la terra non sono solo la principale risorsa economica, ma anche espressione di una cultura: barche, attrezzi da pesca, oggetti del lavoro, architetture povere, conformazione urbana dell’abitato, la struttura delle case, tutto è lo specchio di un vivere quotidiano lento e inesorabile, che con il sole e il salso, ha scavato il volto dei pescatori e degli agricoltori.

La luce solare, accecante non solo in estate, conferisce alla pietra una luminosità speciale, forse prodotta anche dai cristalli di sale che i venti portano dal mare al paese: lo scirocco da sud-est, il ponente da ovest, il libeccio da sud-ovest – da Malta e dalla Tunisia, lì a un tiro di schioppo – il mezzogiorno da sud. E a sud, a circa mezzo miglio, c’è un’isola, Capo Passero, raggiungibile a piedi via mare grazie alla scarsa profondità dei fondali. Qui a Capo Passero lo Ionio e il Mare Africano si incontrano. A ponente del paese c’è l’Isola delle Correnti: distante da Portopalo circa tre miglia via mare, e ad appena 300 metri via terra grazie a una strada costruita dall’uomo per facilitare l’accesso a un faro vitale per i naviganti.

Ho visitato l’Isola delle Correnti in compagnia di Campisi poche ore dopo che mi era stato presentato da alcuni amici comuni desiderosi che vedessi i suoi quadri. Erano circa le 18, l’ora in cui tramonta il sole. Il colore rossastro del paesaggio faceva pensare ai grandi dipinti romantici di Friedrich, ma anche allo sfondo dell’Urlo del grande pittore scandinavo Munch. Ritornai all’Isola qualche tempo dopo, sempre alla stessa ora, e stavolta il tempo, vagamente nuvoloso, rendeva il luogo grigiastro e metallico, pervaso da un’atmosfera nordica. Nelle dune di sabbia grigie scoprii lo stesso grigio che avevo riscontrato nei dipinti di Campisi. Trovavo così risposta alla domanda che mi ero posto osservando i suoi quadri: come mai, mi ero chiesto, un uomo del sud, che vive in una terra assolata, accecante, utilizza prevalentemente – ma si potrebbe dire esclusivamente – colori tipici dei paesi nordici? In un primo momento avevo giustificato quella scelta come un’influenza ai ripetuti viaggi in Norvegia, Olanda, Scandinavia compiuti dall’artista a bordo di petroliere. Sul finire degli anni 70 rimase ben tre mesi a Cristiansun, nel nord della Norvegia, e, nello stesso periodo, sostò un mese a Rotterdam. In quei paesi non mancò di visitare i musei, dunque – pensai – doveva aver familiarizzato con i ritratti di Holbein, Durer, o di Cranach, e subìto l’influsso di quella pittura glaciale e scultorea e, insieme, armonica ed espressiva. Nello stesso tempo – pensai ancora – non poteva non ispirarsi anch’egli a quella grande opera moderna che è Le demoiselles d’Avignon, dipinto in cui Picasso, per uscire dalla forma classica, spezzò – ispirandosi alla spigolosa statuaria africana – la continuità luce-ombra rendendo le forme meno tondeggianti.

Sicuramente Campisi ha guardato alla nostra tradizione pittorica degli anni 20 – il gruppo del Novecento, Oppi, Wildt, Donghi, Cagnaccio di San Pietro – eppure, osservando la luce di quell’estremo lembo d’Italia, compresi che la matrice dei suoi dipinti era da ricercare piuttosto nell’atmosfera dei tenebrosi ritratti di pittori quali Munch, Schad, Schonberg o Meidner. Campisi ha guardato cioè all’arte dei grandi pittori nordici della fine del vecchio secolo e dell’inizio del nuovo, riconoscendo in essi una sorta di parentela, quasi avesse frequentato gli stessi loro luoghi, condividendone memorie adolescenziali. Contrariamente a quanto fece Gauguin, che si affrancò da sentimenti di nostalgia nei confronti del proprio luogo d’origine, abbandonandolo per cercare altre radici nell’isola di Tahiti, Campisi trova invece affinità e sintonie tra la sua terra e quella bagnata dai mari del nord. Nell’incapacità di conciliare in un momento unico l’amore per due luoghi distanti e vicendevolmente estranei, emerge così in lui un senso di nostalgia che diviene un sentimento contrastante che si traduce in senso tragico.

Nei dipinti di Campisi i soggetti sono prevalentemente donne dalle labbra rosso mora e dai caratteri mascolini. Ritratte in abito scuro, a mezzo busto, immobili, queste giovani, dai capelli cortissimi, vagamente perverse e prive di ogni erotismo, ricche di sentimenti impenetrabili, si collocano in un proprio spazio casalingo – quasi fossero esse stesse parte dell’arredamento. L’estremo di una spalliera di poltrona dalla tappezzeria sovente matissiana e uno scorcio di carta da parati (o stoffa) monocroma nonostante i disegni che l’attraversano sono gli elementi minimi che l’artista concede al decoro del dipinto. L’insieme è freddo, distaccato, metafisico, lo sfondo ideale perché si renda manifesta l’impenetrabilità dell’espressione sensuale delle giovani donne in nero. Alcune di esse guardano lo spettatore dritto negli occhi, altre rifuggono lo sguardo di chi le osserva.

Il silenzio le unifica, le fa sentire membri della stessa categoria esistenziale. A differenziarle è principalmente la posizione delle mani, dagli stilemi decisamente orientali, sempre poste in modo da far pensare che in esse si nasconda un qualche messaggio occulto. Le donne di Campisi trovano la centralità della propria cifra nell’ambiguità del non detto, nel non confessare trasgressioni pur dichiarando un segreto impenetrabile. Vi è in esse l’immutabile necessità di nascondere ai nostri occhi “le simpatie”, le passioni, le angosce, probabilmente anche l’ignavia, a dimostrazione di una condotta ordinaria che in nulla può turbare la vita cadenzata di una silente cittadina di navigatori.

Demetrio Paparoni

Siracusa, 5 agosto 1997